SPINE
di Massimo Barilla
con Stefania De Cola, Mariano Nieddu e Lorenzo Praticò
Regia Massimo Barilla e Salvatore Arena
Musiche originali Massimo Polimeni
Scenografia Aldo Zucco
Produzione Mana Chuma Teatro
IN BREVE
Tre solitudini, tre solitudini mischiate alla pena. Un girotondo di perdenti. Triangolo di solitudini, in un rettangolo di storia. Personaggi che sembrano fantasmi: si muovono come le foglie degli alberi di notte. Un racconto a più voci, intessuto di urla gridate sottovoce.
Tre personaggi – ombre in una locanda senza avventori, ripetono ossessivamente una storia che – loro dicono – li ha attraversati e li ha resi testimoni per sempre. La storia di un’ubriacatura, di un ferimento, di un Cassio degradato e di un poco nobile Otello. “E Desdemona? Cosa ne è di Desdemona?” Ma questo non è che un pretesto, come in un metateatro scalcinato, per giocare a essere ancora qualcosa, qualcuno, in un riflesso di specchi e di identità: Lucio, il Capitano/Otello; la ruvida e seducente ostessa Magdalena/Desdemona; l’oscuro e multilingue Becchino/in parte Cassio e in parte Iago.
Solo un pretesto, una ricerca al buio, un tentativo inesperto – e per questo incurante di sconfinare di tanto in tanto nell’eccesso della farsa o del melodramma – di riconquistare ancora un tempo, un respiro, un corpo, una carne da risanare, per liberare l’anima dalla loro di storia irrisolta, dal loro sfuggire a se stessi, dal loro eterno tentativo di svelamento del dramma celato che li abita.
Spine nasce da una necessità espressiva. Dall’esigenza di confrontarsi con una storia alta a partire dai margini, dai vuoti non raccontati, dalla volontà di indagare strade normalmente ignorate, sia in termini di drammaturgia che di ricerca linguistica.
La lingua è strumento mobile, dominata dall’uso e dalla funzione, nella quale il “significante” si trasforma, assume colori e suoni nuovi, spiazzanti, ma sempre ai fini di un rafforzamento di “significato”, mai per se stessi, mai per pura ostentazione o funambolismo linguistico.
I dialetti, le lingue anzi, si mescolano. Sardo, siciliano, calabrese (non per caso lingue madri degli attori), disposti a un uso alto, sanno di vita, mai di quotidiano. Nell’area rimane questo impasto strano di accenti e di lingue, che ha il suo culmine nella parlata del becchino, mescolanza inventata, non lingua dei porti, ma dei morti, zeppa di ultime parole a essi rubate, dai loro denti disincastrate (francesismi, inglesismi, spagnolismi, germanismi riutilizzati più per fascinazione di suono che di senso).